Pubblichiamo un articolo contenuto nell’ultimo numero di Tc2 Magazine (dicembre-gennaio) di Paolo Vannini, giornalista sportivo del Corriere dello Sport.
Le contraddizioni che da sempre hanno caratterizzato il tessuto sociale di Palermo trovano nello sport la propria sublimazione. La storia ne è testimone: campioni in erba che si fanno strada nell’assenza totale di strutture, miracoli di una notte che scompaiono al risveglio, faticose lotte per sopravvivere, spesso ostacolate proprio da chi avrebbe il compito di promuoverle. La situazione attuale in città però sta superando ogni limite. All’emergenza siamo abituati, ma qui siamo senz’altro oltre. Né lo sport di vertice né quello di base vivono giorni felici, e non solo perché la crisi economica fra le prime vittime ha colpito proprio il mondo sportivo. Lasciamo fuori il calcio professionistico, che è sempre stata una realtà diversa, per impatto globale e per circuito economico; i contorni ludici di quel fenomeno sono sempre meno avvertibili, domina un sistema da show business. E in ogni caso, anche qui Palermo sta ai vertici (in serie A intendiamo) solo grazie a capitali che non vengono dal proprio seno. Zamparini, comunque lo si giudichi, è friulano, e nei posti chiavi ha sempre messo manager continentali. Ma in nessun altro sport dove occorra una capacità organizzativa importante, una esponente di Palermo è ai vertici. Su questo, ancor più che sulle polemiche relative agli impianti, bisogna forse fare una riflessione. È una sconfitta generale della nostra città, della nostra classe dirigente, dei nostri rappresentanti politici.
Le cronache quotidiane ci riportano purtroppo immagini già viste. Le realtà che con difficoltà provano ad emergere si scontrano innanzitutto con una diffidenza “interna”, del proprio ambiente quando non delle proprie istituzioni. La guerra dei poveri, la filosofia del “non fare e “non far fare”. Non entreremo nel merito di una vicenda deprimente come quella del Pala Mangano (ex Pala Uditore) che una società di basket neo promossa in serie B si era detta disposta a co-gestire, sistemando a spese proprie le mancanze cui il Comune non provvede. Ci limitiamo a
fatti che ci pare siano incontrovertibili: Palermo negli ultimi anni ha dissipato per cattiva amministrazione il patrimonio
di impianti moderni che gli stessi politici di oggi vantavano come fiore all’occhiello. La storia del Palasport di Fondo Patti è una delle più incredibili che si possano ascoltare pur nelle follie delle metropoli odierne: atteso 30 anni e più, realizzato con architetture moderne, regalato per un anno ad una società di pallavolo portata appositamente da Ferrara (l’Iveco) che poi è scomparsa senza lasciare nulla, neppure un esempio positivo. Abbandonato per una folata di vento che ne ha distrutto il tetto, incustodito, offeso giorno dopo giorno. L’ennesima dimostrazione delle incapacità della macchina amministrativa, ma anche di volontà cieche e dimentiche di quanto avevano sostenuto in passato. E i due palazzetti gemelli nati in quartieri simbolo (Uditore e Oreto), che avrebbero dovuto essere quelli di esercizio per le attività di base, mai pienamente sfruttati e oggi inagibili e vietati al pubblico (!) per carenze burocratiche che sfuggono alla comprensione delle persone di buon senso. Anche il rifinanziamento per i lavori appena deliberato servirà a poco se i criteri di utilizzazione della cosa pubblica resteranno gli stessi. Il problema principale di Palermo (penso di tutti i grandi centri in generale) non è tanto realizzare o, in questo caso, sistemare e riparare: è mantenere, cioè essere capaci di gestire la quotidianità di un bene collettivo, non mandarlo in rovina il giorno dopo averlo ristrutturato.
Non aggiungiamo alla lista altri casi limite (velodromo, diamante di baseball, piscina olimpica) che hanno già vilipeso troppo a lungo i pensieri di chi credeva
nel riscatto della propria città. Lo sport appassiona la gente perché, comunque sia, fra chiacchiere e moviole, alla fine c’è un risultato e c’è sempre la speranza di un domani, di un altro risultato che possa essere migliorato. Perché poi questo è il senso intrinseco di ogni attività sportiva: crescere, andare oltre sé stessi, saper affrontare le sfide della vita attraverso l’allenamento, la passione e la formazione.
Oggi a Palermo manca persino il risultato. Non c’è nulla e quello che c’era, anche a livello di spettacolo (Internazionali di tennis maschili e femminili, Coppa degli Assi di equitazione, gare di atletica di grande spessore) è scomparso senza che nessuna istituzione trovasse un sistema efficace per evitarlo. Persino la squadra di Belmonte Mezzagno che era campione d’Italia di badminton ha dovuto cedere il suo titolo sportivo. Un esempio di dissipazione dei propri beni (anzi di beni pubblici, quindi di tutti) pazzesco, imperdonabile. Il salto di qualità che serve nel mondo sportivo è etico ancora prima che pratico. Se la buro- crazia ci uccide, creiamo almeno un sistema di principi com- prensibili agli utenti che eviti il caos. E rimettiamo in moto una macchina virtuosa che permetta alla città davvero di esprime- re le proprie potenzialità, che esistono in natura (pensate agli Antibo, ai Nibali, ai campioni della lotta o della pesistica usciti fuori quasi dal nulla) ma non sono valorizzate. Dallo sport nelle scuole ad aiuti alle società, non economici ma in termini di disponibilità di strutture. In questo clima, a chi è affidato in fondo il compito di fare sport in città? Se ci pensate proprio ai circoli, che infatti a Palermo mantengono un alto livello di competitività e che costituiscono una “eccellenza” sia in tema di impianti (come il Tc2, che ha appena migliorato la qualità delle strutture a disposizione dei soci, il campo di calcio e i due campi da tennis in play-it) che di partecipazione. È un’oasi importante e meritoria ma non sufficiente, anche perché, purtroppo, l’iscrizione ai circoli non se la possono permettere tutti e dunque questa situazione può creare scompensi sociali. E del resto, non è Palermo la terra del dolce e dell’amaro che convivono assieme, del rosa e del nero, delle contraddizioni che viviamo sulla nostra pelle ma di cui non riusciamo a liberarci?